Mercoledì 8 ottobre 2025

L’arte nella visione del pittore rovatese Sergio Piva

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Sergio Piva, artista rovatese, coltiva da sempre una profonda passione per la pittura, a cui si dedica completamente. La sua tecnica pittorica è materica: sovrappone molteplici strati di colore, creando superfici in rilievo che danno tridimensionalità alle opere.

Lo abbiamo incontrato per comprendere quale sia la sua visione di arte, quali gli elementi fondanti nella realizzazione di un’opera e gli effetti sull’osservatore.

Qual è il suo concetto di “Arte”?

«Il mio concetto di arte nasce dal presupposto che ciò che conosciamo rappresenta il punto di partenza: il pregiudizio è lo strumento necessario per avanzare e spingersi oltre, verso ciò che ancora non è stato esplorato. Conoscere prima di agire è fondamentale, altrimenti si rischia di cadere in una ripetizione infinita. La creazione, e ciò che ne deriva in ambito artistico, è l’espressione superata di quel pregiudizio che considera razionale solo ciò che è già noto. L’arte, per me, è tutto ciò che supera il confine del conosciuto. In questo senso, si può tracciare un parallelo con la scienza: anche lì il processo parte dalla razionalità per andare a esplorare ciò che è ignoto. Il mio intento è creare un’opera che conservi elevate qualità estetiche, evitando di riprodurre lavori precedenti, che non mi appartengono ne mi rappresentano.

Scelgo deliberatamente di non usare termini definitivi, perché tradurre un’immagine in parole significa sfidare la realtà stessa. Le parole, infatti, non sono la realtà: ne sono solo metafore, elementi a cui abbiamo dato intenzionalmente un significato, generalmente condiviso da tutti, ma non è detto che non ne esistano altri infiniti.

Cosa ci può dire in merito alla tecnica?

«Attribuisco grande importanza alla tecnica: il quadro è reale nella sua consistenza fisica, non nella sua capacità di rappresentare. Esso si aggiunge alla realtà, ma non nasce con l’intento di spiegarla. L’opera pittorica è polisemica, una presenza che si manifesta nella rappresentazione. Ogni creazione, così come ogni parola, richiama immagini soggettive legate all’esperienza personale. Per me, “costruire” un’opera non equivale a esprimere una volontà comunicativa consapevole dell’autore, ma piuttosto affrontare un territorio ignoto, sia sul piano tecnico, che su quello del significato. Chi realizza un’opera si confronta con una sfida in cui si intrecciano conscio e inconscio, storia e tecnica, in un processo complesso volto alla produzione di qualcosa di autenticamente originale.

Le uniche forme fondamentali di rappresentazione umana e fisica sono la linea retta e la linea curva: ogni gesto tracciato segue una traiettoria inevitabile. In alternativa, esiste la “macchia comunicativa”, alla maniera di Pollock, che genera traiettorie di linee rette e curve in espansione libera, svincolate da vincoli formali».

Come definirebbe la sua espressione artistica?

«La mia arte parte dai concetti espressi dagli antichi filosofi greci di Archè (principio originario, elemento primordiale come acqua, aria, fuoco), Physis (forza che muove il mondo vivente in costante generazione e trasformazione) ed Eidos (forma, idea, essenza. Questi principi rappresentano l’origine di ogni cosa che, attraverso il filtro del pregiudizio, si spinge oltre la dimensione conscia, per dare voce all’inconscio. Il quadro diventa così manifestazione di questi elementi, espressi attraverso gli unici strumenti gestuali della mano: la linea curva — capace anche di generare forme circolari — e la linea retta. Rappresentano l’unico gesto pittorico possibile; queste sono all’origine delle cose, chi dice altro sta mentendo Il risultato è un’opera che esiste come realtà autonoma, dotata di un significato proprio, determinato da ciò che evoca nell’osservatore.

Nelle mie opere utilizzo colori tradizionali, il quadro deve “viaggiare” da solo evocando nell’osservatore significati originali in base alle sue sensazioni ed emozioni e non gli può essere attribuito un significato a priori. Di fronte all’opera, l’osservatore parte da ciò che conosce instaurando un dialogo con l’oggetto osservato per poi procedere oltre criticando il proprio pregiudizio.

La parte psicologica espressa in un’opera non appartiene ad una volontà affinata dell’artista, ma a una elaborazione inconscia organizzata attraverso strumenti relazionali (parole, pensieri, colori, ecc.)».

Come affronta il suo rapporto con la realtà?

«La affronto da un altro punto di vista, parto dall’indefinito o infinito cercando di definirla; da qui la circolarità che caratterizza molti miei quadri. Utilizzo colori con la tecnica materica, applicando strati su strati, che danno al quadro l’effetto rilievo. Le mie opere non vanno solo viste, ma toccate; solo così l’osservatore potrà percepirne e coglierne appieno il significato. Le diverse tecniche rappresentative diventano possibilità interpretative di un gesto che è originale.

Come artista pongo un limite; fuori dal limite c’è l’indefinito e la possibilità di estendere. All’interno si ha la forma conoscibile, definita grazie ad un segno, che vuole essere un suggerimento di interpretazione della realtà da parte dell’osservatore. Le mie tele sono uno strumento per esplorare ciò che chiamiamo “realtà”, che in verità è una costruzione soggettiva dell’essere umano.

La linea (retta e/o curva) è una volontà interpretativa dello spazio ma anche della sua origine. Essa è artificiale, ma è un artificio che riprende le linee naturali e, pertanto, è una dimensione naturale universale. I miei lavori sono un’indagine sull’origine della pittura, della rappresentazione, sull’origine delle cose. Le opere non sono definibili con un nome preciso, proprio perché infinite rappresentazioni del finito e dell’infinito, dove l’osservatore può avere e cogliere sensazioni personalissime ed originali. L’irrimediabile conflitto tra la vita e la morte viene rappresentato nella metafora figurativa attraverso la primigenia antitesi tra la luce e l’ombra».

Emanuele Lopez

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